Caro Marco hai letto l'articolo sul corriere?
Interessante, è lo stesso dibattito che c'è fra di noi.
riporto l'articolo:
«Terzo Mondo sfruttato? Purtroppo non abbastanza»«In Cambogia il lavoro sottopagato è un miraggio. L?alternativa è la fame»
Chi aiuta di più i lavoratori del Terzo Mondo? Gli attivisti che chiedono standard minimi di diritti sindacali e di norme ambientali alle multinazionali attive in quei Paesi? Oppure le stesse multinazionali che pagano quei lavoratori con una frazione del salario previsto in una nazione industrializzata? Il dibattito si è acceso durante l?attuale campagna pre-elettorale negli Stati Uniti all?interno del fronte dei Democratici, che sperano di togliere la presidenza a George Bush dando battaglia sui temi economici, soprattutto sulla non crescita dei posti di lavoro nonostante la ripresa dei profitti aziendali. Il ragionamento è semplice: le multinazionali americane aumentano i propri guadagni chiudendo fabbriche e uffici negli Usa e trasferendoli nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), dove possono sfruttare pesantemente i lavoratori; mentre la concorrenza sleale dei prodotti provenienti dal Terzo Mondo, che hanno prezzi imbattibili grazie all?infimo costo della manodopera, costringe altre aziende americane a chiudere. Ma essendo improponibile bloccare tout court le importazioni di merci dai Pvs o impedire gli investimenti all?estero delle multinazionali, un?idea per frenare la «globalizzazione» è richiedere che nei trattati commerciali internazionali vengano inserite clausole sulle condizioni di lavoro.
Richard Gephardt - il candidato alla nomination fra i Democratici che era appoggiato ufficialmente dai sindacati, ma che la settimana scorsa si è ritirato - proponeva ufficialmente l?adozione da parte della Wto (World trade organization) di un «salario minimo internazionale» per «eliminare la proliferazione della competizione da lavoro schiavizzato, minorile e in locali malsani (sweatshop)». Un altro candidato ancora in corsa, anzi uno dei favoriti, Howard Dean, ha dichiarato che «il commercio richiede anche diritti umani e standard lavorativi e ambientali simili in tutto il mondo».
Ma secondo Nicholas Kristof, autorevole opinionista del quotidiano New York Times , questo è un tradimento della tradizione pro commercio del partito Democratico, non a caso sostenuta con successo dall?ex presidente Bill Clinton. «Se il partito si ritrae verso il protezionismo sotto forma di richiesta degli standard lavorativi - ha scritto Kristof - sarebbe un danno per i consumatori americani. Ma sarebbe particolarmente devastante per i lavoratori nelle parti più povere del mondo. Infatti il problema fondamentale nei Paesi poveri dell?Africa e dell?Asia non è che gli "sweatshop" sfruttano troppi operai; è che non ne sfruttano abbastanza». Kristof ha documentato la sua accusa con un reportage dalla Cambogia («Realities of Labor» su
www.nytimes.com/kristof ), dove si trova in questo periodo: farsi sfruttare in fabbrica - spiega - è un sogno per una ragazza come Nhep Chanda, 17 anni, una delle centinaia che a Phnom Penh tutti i giorni rovistano nelle discariche di immondizie in cerca di plastica e metalli da rivendere e cibo da mangiare, guadagnando in media 75 centesimi al giorno e intossicandosi con i fumi dei rifiuti che bruciano, tagliandosi i piedi con i vetri rotti e le lamine arrugginite. Lavorare in uno «sweatshop», al chiuso, protetta dal sole cocente, «solo» sei giorni la settimana per 2 dollari al giorno è un miraggio di emancipazione e di sicurezza. E, per una ragazza, anche un modo per stare lontano dall?industria del sesso, fiorente in questi Paesi. I posti in fabbrica sono così desiderati in Cambogia, che per ottenerli spesso i candidati corrompono qualcuno in azienda con un mese del futuro salario.
«L'idea di un salario minimo è solo apparentemente a favore dei più deboli», sostiene Walter Williams, professore di Economia alla George Mason University e autore del libro «La guerra del Sudafrica contro il capitalismo». E cita come durante gli anni dell?apartheid sudafricano fossero i bianchi sindacalizzati a invocare un salario minimo uguale per loro e per i neri: «Ma non era compassione dei bianchi per il benessere dei neri - precisa Williams -. Era solo un modo per proteggere i propri posti di lavoro nei settori meno qualificati, come quello dell?edilizia, contro la concorrenza della manodopera nera che costava di meno».
Gli effetti dell?apertura di un Paese povero alla «globalizzazione» sono ben documentati nel caso dell?India, ha fatto notare lo scrittore indiano Salil Tripathi in un intervento sul Wall Street Journal : fino al 1991 la politica di chiusura verso l?estero e totale controllo del governo sulle industrie locali ha generato solo crisi e povertà; dal ?91 il ritorno nell?economia globale ha rilanciato la crescita e, se è vero che l?India ha ancora un numero enorme (1 miliardo), di abitanti in condizioni di miseria assoluta, è altrettanto vero che negli ultimi dieci anni 100 milioni di persone sono uscite dalla povertà. Per risolvere i problemi ancora esistenti, le ricette suggerite dal World Social Forum che si è tenuto la settimana scorsa proprio nella città indiana di Mumbai «non sono pratiche - conclude Tripathi -. L?India ha già sperimentato i controlli sui business, la paura delle multinazionali, la retromarcia sulle privatizzazioni. Il risultato è stato la stagnazione».
Maria Teresa Cometto
« Ultima modifica: Gennaio 26, 2004, 12:26:53 pm da HansMuller »