Giuseppe Turani ha scritto un bel articolo su repubblica intitolato:
"Il sistema Italia si è rotto la piccola impresa non va più"Vi consiglio vivamente di leggerlo. C'è anche un riferimento importante che riguarda la FIAT.
il link è il seguente:
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2004/04/19/lintervista/007kapello.htmlL?INTERVISTA/ NINO LO BIANCO/ UN PAESE AVANZATO, SPIEGA UNO DEI GURU DELLA CONSULENZA AZIENDALE, NON PUÒ FARE A MENO DELLA GRANDE IMPRESA E DELLA SUA CAPACITÀ DI INNOVARE: "PER DI PIÙ, DA NOI NEANCHE LA PMI FUNZIONA"
"Il sistema Italia si è rotto la piccola impresa non va più"
GIUSEPPE TURANI
«Che l'Italia sia un paese incagliato dal punto di vista produttivo, delle imprese, è cosa ormai evidente a tutti. D'altra parte, basta gettare un'occhiata su qualsiasi classifica internazionale e si vede che, in qualche caso, occupiamo posizioni addirittura imbarazzanti». Nino Lo Bianco è presidente di Bip (Business Integration Partners), una società che fa parte del gruppo Engineering di Roma e che è stata costituita grazie all'uscita dalla Deloitte Consulting (di cui era il numero uno) di un'ottantina di superconsulenti.
Lo Bianco, che era stato anche il fondatore della Telos (una delle prime società di consulenza italiane) negli anni Settanta, è un personaggio che da più di trent'anni gira fra le imprese italiane, che ormai conosce benissimo. «E' una strana crisi, questa dell'Italia di oggi. Si tira a non parlarne tanto, si va avanti come se tutto fosse a posto, ma le cose non stanno affatto così. La grande impresa, da un certo punto di vista, è il cuore di questa crisi. Continua a licenziare gente, a ridurre le proprie dimensioni. E questo, forse, in una certa misura potrebbe anche essere fisiologico. Ma certo diventa preoccupante nel contesto generale».
E quale sarebbe questo contesto?
«Purtroppo è molto semplice da descrivere. Sono almeno dieci anni (se non di più) che in questo paese non nasce una grande azienda, sono più di dieci anni cioè che non ci sono novità, nuove iniziative, fatti importanti. Sono dieci anni che si va avanti, stancamente, con quello che c'era già e quello che c'era già, ovviamente, ha sempre l'aria un po' più stanca e in crisi. Insomma, non è una bella situazione. Con gli anni, poi, il tutto si è anche aggravato».
In che senso?
«Ma nel senso che via via siamo usciti da vari settori. E oggi la nostra presenza, parlo di grandi aziende, è veramente ridotta, siamo arrivati proprio all'osso».
Ci salvano le solite piccole e medie imprese, allora, almeno a quanto si legge in decine di saggi, di articoli, di dotti trattati sul modello Italia...
«Anche qui sarei un po' più cauto. I distretti industriali, su cui negli anni passati l'Italia ha costruito tanta parte del suo successo industriale, o stanno morendo o stanno diventando altro rispetto a quello che erano prima. Di sicuro non sono più elementi propulsivi nella società italiana».
Restano le 200300 buone aziende medie di cui parlava De Rita. Forse si può ripartire da quelle.
«Credo che non ci sia quasi altra strada. Anche perché abbiamo ormai così poche cose che non vedo da dove potremmo partire se non da questo gruppo di medie aziende buone. Ma anche in questo caso bisogna fare delle precisazioni e bisogna spiegare alcune cose».
E cioè?
«Molte di queste buone aziende medie sono leader di nicchia o hanno importanti quote nel loro specifico e ristretto settore. Sono aziende che, in qualche caso, più in là non vanno. Sono lì, fanno bene il loro mestiere, ma in un certo senso sono arrivate. A questo aggiunga una cosa, se vuole, ancora più grave».
Di che cosa si tratta?«Queste aziende sono in molti casi assolutamente meravigliose, hanno fatto un sacco di cose, e vanno benissimo. Ma, se andiamo a guardarle da vicino, spesso ci accorgiamo che sono a tecnologia bassa. O, peggio ancora, di quasi nessun contenuto tecnologico, avanzato. Qualche volta si reggono quasi esclusivamente su un bel design e poco altro. E' evidente che, se vogliamo ragionare in termini di sistema e di medio periodo, siamo di fronte a strutture fragili. Strutture che in più di un caso non hanno i numeri per stare a lungo, e bene, sul mercato».
E quindi che cosa si può fare?«Intanto bisognerebbe aiutare quelle che ci sono, e che sono valide, a crescere. Ma, soprattutto, bisognerebbe trovare il modo, con leggi opportune e con progetti messi in campo appositamente, di far crescere altre buone medie imprese. E, questa volta, bisognerebbe cercare di farle nascere in settori che abbiano rilevanti contenuti tecnologici e di innovazione. Insomma, qualche pentola in meno e qualche chip in più».
Possiamo tornare per un attimo ancora sulla crisi della grande impresa?«Ma certamente».
Perché è così in crisi? Non è un fenomeno che riguarda tutto il mondo. Sembra che abbia colpito solo noi.
«Vede, la grande impresa italiana, con il passare degli anni, ha perso le sue connotazioni tradizionali senza assumerne di nuove, importanti. In parole semplici: quando ha cercato di rinnovarsi, ha copiato, un po' burocraticamente, certi modelli organizzativi americani e è diventata lenta, senza fantasia, senza grandi progetti. E infatti i grandi imprenditori di una volta non ci sono quasi più. Se si escludono pochissime eccezioni, da Pistorio a Del Vecchio della Luxottica. Per il resto c'è una grande impresa semimanageriale (perché spesso i padroni ci sono, e sono ben presenti), molto burocratica, piena di comitati, di memorandum, ma, ripeto, con poche idee».
In questa situazione che cosa si può fare?"L'elenco delle cose da fare sarebbe lunghissimo, a partire dalla scuola. Ma possiamo limitarci a indicarne alcune, tanto per aggiungere materiali al dibattito in corso sull'Italia incagliata. La prima cosa che ai miei occhi di consulente risulta evidente è che in questo momento l'Italia si trova dentro una sfida importante, ma, forse, non lo sa».
Di che sfida si tratta?«Quella della
Fiat. Nel senso che questo paese non può assolutamente permettersi di perdere la
Fiat. Si tratta veramente dell'ultima grande impresa industriale che abbiamo, e non possiamo perderla. La
Fiat, cioè, va salvata. Direi quasi a qualsiasi costo. Perdere la
Fiat, infatti, vorrebbe dire uscire dall'auto, ma anche certificare che abbiamo divorziato dalla grande impresa. Che quello è un mondo che non ci appartiene più, che siamo diventati, ufficialmente, un paese di medie imprese (con quelle caratteristiche che ho segnalato prima) e di artigiani. Mi sembra che il progetto di questo paese, negli anni della ricostruzione, non fosse esattamente questo. Insomma, perdere la
Fiat sarebbe un colpo definitivo alla nostra immagine, ma anche alle nostre ambizioni, alla nostra idea di paese. E quindi bisogna fare tutto quello che si può per tenerla in piedi e per rilanciarla».
E qui il suo messaggio è chiarissimo. Fiat a parte, che cosa si può fare d'altro?
«Le voglio segnalare un caso che è emblematico, e anche importante. Lei sa che nuovi paesi, quelli dell'Est, stanno entrando in Europa. Sono paesi che hanno bisogno di molte cose, che hanno una gran voglia di vivere, anche se quasi sempre non hanno strutture "capitalistiche" moderne (dalle scuole al management alle tecnologie). Non ci vuole molto a capire che per un paese come l'Italia questo significa che in questi anni si sta aprendo una finestra di opportunità molto importante. In questa area potremmo giocare un ruolo decisivo. Potremmo fare tantissime cose».
E allora?
«E allora non stiamo facendo invece assolutamente niente».
Non è un po' eccessivo? Ci sarà pure qualche azienda che sta aprendo filiali da quelle parti.
«Non mi riferisco a questo. Dico che dovremmo avere, come paese, tutto insieme, un progetto per fare delle cose in queste aree, per segnalarci come loro possibili partner nel decollo economico (cosa che a suo tempo in Italia abbiamo fatto abbastanza bene). Dovremmo riuscire a muovere tutto insieme: la politica, le banche, le imprese, le università, la ricerca (quel poco che abbiamo). Ma, invece, non stiamo facendo proprio niente del genere. In termini ancora più chiari, stiamo buttando via, sprecando, una grande occasione. E il problema è che questa finestra di opportunità non rimarrà aperta in eterno. Si tratta di pochi anni. E quindi, se si vuole cogliere l'opportunità, bisogna intervenire subito. Del resto è così che va tutto il paese».
Non è un po' troppo pessimista?
«No. L'Italia è un paese che dovrebbe decidere, giunti a questo punto, che cosa fare da grande. Ma non lo sta facendo, tira avanti alla giornata. Ogni tanto si fanno i conti e si constata che le grandi aziende sono sempre meno, sem<\n>pre più piccole e che il resto un po' arranca. Ma nessuno prende decisioni».
E che cosa potremmo fare?
«Decidere, ad esempio, di tornare a puntare sull'auto, di puntare sul settore spaziale e sulle telecomunicazioni. Non è vero che qui tutti gli spazi sono già occupati. C'è ancora molto lavoro da fare. Ma occorre uno sforzo coordinato, lucido, tempestivo. Esattamente, però, quello che mi sembra non siamo più in grado di fare».
« Ultima modifica: Aprile 19, 2004, 15:34:16 pm da HansMuller »